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Stadi della crisi e riforma, prime riflessioni

Aggiornamento: 27 apr 2021

L’evoluzione dell’attuale quadro normativo in materia di controllo societario, sta negli anni mostrando una forte incidenza su modelli operativi che si fondano sul meccanismo di controllo e di anticipazione della crisi. Tutte le imprese in crisi, prima di diventare tali, sono in grado di mostrare in termini economico finanziari chiari segnali potenzialmente capaci di compromettere la continuità economica ripercuotendosi negativamente anche sulla gestione degli impegni presi. L’analisi del problema ha così condotto a revisionare i modelli in uso di sorveglianza, atti a identificare con tempestività d’azione le fisiologiche condizioni aziendali che potrebbero incidere su un tracollo aziendale.


Sebbene non esista un perfetto algoritmo o una formula “magica” in grado di intercettare in anticipo le condizioni di rischio, un’impresa in crisi, mostrerà sempre dei segnali, talvolta nascosti, che possono permettere, solo ad un analista attento di aumentare ulteriormente il livello d’attenzione.


Tale approccio pone così la sfida, per i consulenti aziendali, di far capire quanto diventi importante distinguere e individuare efficacemente e tempestivamente i diversi stadi della crisi, intercettando anche quelle situazioni in cui una fase di squilibrio, presenti carattere di reversibilità, con la possibilità di essere sanata anche per il tramite della procedura di composizione assistita, privilegiando l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori ed evitando così, ove possibile, che questi debbano subire il meccanismo della falcidia e/o di un pagamento assai tardivo.


Negli anni più recenti, non sono certo mancati numerosi studi in materia, con l’obiettivo di approfondire gli aspetti più rilevanti del fenomeno della crisi d’impresa, ponendo una particolare attenzione su quelle che sono le cause della crisi stessa, ma soprattutto sulla gestione della crisi finalizzata al “cambiamento”, operando altresì interventi che il risanatore ha il dovere di porre in essere al fine di ripristinare gli equilibri economici, finanziari e patrimoniali dell’impresa.

Il tema della crisi d’impresa e dell’insolvenza, sembra ad oggi essere tra le tematiche più qualificanti e allo stesso tempo controverse dell’attuale processo di riforma sul tema, specie in scenari come quello attuale, in cui, alle riflessioni degli esperti, si va affiancando anche l’attenzione dell’opinione pubblica.


A testimonianza dell’impegno, vi è il continuo evolversi normativo in materia, a partire dal lavoro svolto dalla commissione ministeriale, presieduta da Renato Rordorf, nel dettare al Governo i principi da rispettare nell'attuare la riforma delle discipline della crisi d'impresa e dell'insolvenza, fino alla legge delega del 19 ottobre 2017 n. 155, e agli schemi di decreti legislativi delegati del 22 dicembre 2017 oggi confluiti nello schema di decreto all’esame del governo.


La norma in commento, che contiene le linee guida della riforma sulla crisi d’impresa, richiede che venga introdotta una più precisa definizione di stato di crisi rispetto a quella già presente all’art 160 co.3 della Legge Fallimentare, secondo cui «per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza».

Lo schema di decreto legislativo “Codice della crisi e dell’insolvenza”, così ufficializzato dalla predetta Commissione, identifica lo stato di crisi come: “lo stato di difficoltà economico finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni”.


Questo ha permesso di mostrare quanto i continui interventi normativi in tema di crisi d’impresa hanno voluto approfondire gli aspetti più rilevanti del fenomeno, ancora poco chiari e conosciuti tra le imprese stesse che ne sono però le protagoniste. In quest’ottica, proporne una definizione sintetica è per noi, compito arduo, da cui tuttavia non possiamo sottrarci.

Basti pensare, che la crisi aziendale, in ottica aziendalistica, si identifica come il venir meno delle condizioni di equilibrio economico e finanziario dell’impresa, capaci di compromettere la prospettiva di continuità aziendale, condizione imprescindibile alla sopravvivenza della stessa. Esistono tuttavia, diverse manifestazione della crisi, che possono coinvolgere il profilo reddituale o patrimoniale finanziario dell’impresa o la combinazione di entrambi i profili così come esistono diverse caratteristiche di durata della crisi, che da temporanea, potrebbe non esserlo più raggiungendo il suo stadio più acuto d’insolvenza irreversibile. Lo stato patologico della crisi, nel senso della sua irreversibilità, si riconduce al concetto di dissesto nella sua forma di declino reddituale e crisi finanziaria a cui si va sommando una condizione di incapienza delle attività patrimoniali rispetto alle passività contratte per finanziare l’esercizio d’impresa.


Quando sentiamo parlare di insolvenza, però, si sente spesso utilizzare anche i termini crisi e declino quasi fossero sinonimi, senza analizzarne invece la profonda differenza che c’è tra questi, sia in termini di significato, ma soprattutto di azioni esecutive da porre in atto al fine di affrontarle. Così, se una fase iniziale di declino può essere affrontata con metodi ordinari e può essere superata con l’intervento e, talvolta, il sacrificio dei soli referenti interni all’impresa quali soci, management, collaboratori e dipendenti, una successiva fase di crisi, richiede normalmente interventi che si riflettono anche sui referenti esterni quali clienti, fornitori, banche, erario, fino a dover prevedere strumenti concorsuali e variazioni nella compagine societaria, se la crisi dovesse rivelarsi poi irreversibile. Se questa è a grandi linee la differenza tra le due fasi, che può variamente manifestarsi tra un’impresa e l’altra, una cosa resta però imprescindibile: in entrambi i casi è chiesta la capacità di saper leggere con realismo e determinazione i cosiddetti Alert, al fine di adottare tempestivamente le decisioni più opportune.


In quest’ottica, la procedura di allerta (stra-giudiziale e confidenziale), così voluta dal processo di riforma, diventa lo strumento imprescindibile per indirizzare e garantire una tempestiva emersione della crisi e la sua risoluzione prima che questa sfoci in insolvenza.


Ma quali sono gli indicatori da prendere come riferimento per definire un’azienda in crisi?


Come già anticipato, la riforma delegherà agli indicatori d’allerta il compito di aiutare l’operatore nel riconoscere e gestire per tempo la crisi e assumere un’adeguata procedura d’allerta prima interna e poi esterna. La procedura in questione richiede il susseguirsi per fasi di un sistema di allerta preventiva da operarsi in presenza di elementi segnaletici rilevanti dell’impresa in crisi e a totale salvaguardia della continuità aziendale (going concern). Le fasi oggetto della proceduta, ordinate e sequenziali, standardizzano anche il sistema di raccolta e analisi delle informazioni interne, contabili e extracontabili, oltre che di quelle esterne.


Nel tentativo di predisporre un sistema di allerta interno, il Legislatore, indica un indirizzo guida, senza addentrarsi in dettagli tecnici che sono invece lasciati al gruppo di lavoro costituito presso il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili. Andranno quindi analizzate e ricercate nell’impresa oggetto di analisi:

  1. Anomalie nei pagamenti verso parti commerciali;

  2. Anomalie nei rapporti con banche ed altri soggetti finanziari;

  3. Anomalie contrattuali nei confronti di controparti negoziali;

  4. Anomalie contabili e di bilancio;

  5. Anomalie gestionali;

  6. Anomalie erariali;

  7. Manifestazioni significative da eventi pregiudizievoli.

Già l’insorgenza di tali anomalie deve essere valutata come chiaro sintomo disfunzionale, sufficiente ad azionare un sistema tempestivo d’allerta.


Continuando nella trattazione, volendo poi dare una definizione di rischio economico-finanziario, questo, s’identifica come la misura degli effetti negati che derivano dall’ inattesa variabilità del valore economico del capitale aziendale rispetto agli obiettivi prefissati dall’impresa. Tali effetti si concretizzano in una perdita inattesa di valore economico.


Il valore economico del capitale, così come ci insegna la Teoria Finanziaria, dipende essenzialmente da tre variabili fondamentali che sono:

  1. La distribuzione attesa dei flussi di cassa;

  2. Un adeguato orizzonte temporale a cui questi possono essere riferiti;

  3. La misura di rischio, legata alla loro inattesa variabilità rispetto ai valori attesi.

Pe la stessa Teoria finanziaria, se il valore economico del capitale investito dovesse trovarsi a scendere al di sotto del valore nominale del debito finanziario, l’impresa tecnicamente si troverebbe in uno stato di Default. Questa particolare condizione si va quindi definendo come rischio d’insolvenza.


Il valore economico del capitale, a sua volta, può invece essere correlato a quattro determinanti importanti che sono:

  1. La capacità dell’impresa di autofinanziarsi, generando reddito nel medio-lungo periodo;

  2. La capacità di rimborso, individuata come la sua attitudine a sostenere il debito finanziario;

  3. Il livello di solidità patrimoniale, un buon grado di patrimonializzazione in grado di sostenere inattese perdite intese come mezzi propri;

  4. Un buon grado di liquidità, in grado di sostenere gli impegni finanziari a fronte del processo produttivo.

Tornando agli indici finanziari di cui si discute, prima di mettere in atto una procedura d’Allerta, sarà altresì importante l’analisi:

  1. Del rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, inteso come livello di patrimonializzazione effettivo;

  2. Indice di rotazione dei crediti e del magazzino, intesi come capitale circolante operativo;

  3. Indici di liquidità, inteso come la possibilità, dinanzi a impreviste situazioni, di smobilizzare riserve di liquidità rappresentate da attività patrimoniali di capitale circolante commerciale e finanziario.

In quest’ottica, maggiore sarà il rischio economico/finanziario dell’impresa derivante da diversi fattori, tanto maggiore dovrà a quel punto essere il livello di capitalizzazione e il grado di liquidità.

Così, al fine di ricoprire le perdite inattese di capitale e prevenire quindi il rischio d’impresa, la misura necessaria di capitale proprio, considerata sufficiente, viene appunto definito Capitale economico. La sua non considerazione come strumento di copertura del rischio e, di conseguenza l’insufficiente predeterminazione in termini di dotazione patrimoniale e correlata riserva di liquidità, rappresenta infatti il presupposto di una crisi d’impresa.


L’eventuale individuazione dei generici indicatori di crisi appena elencati, dovrebbe, però, essere sempre contestualizzata nell’ambito di applicazione di un più organico sistema di valutazione preventiva del potenziale rischio di crisi e di insolvenza, naturalmente configurato sulla base delle caratteristiche e delle specificità dell’azienda, nonché del settore nel quale la stessa si trova ad operare. Gli indicatori in questione, che con cadenza triennale saranno aggiornati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili rappresentano una componente importante del sistema di monitoraggio interno che sarà, pertanto, rappresentato, in parte, da elementi da prendere come riferimento per il rispetto di quanto previsto dalla norma e, in parte, da altri indicatori individuati ed applicati in ottica squisitamente interna e gestionale.


Al fine poi di favorire l’emersione tempestiva della crisi e agevolarne quindi il componimento, la stessa legge delega ha previsto anche l’introduzione di misure premiali per l’imprenditore che ricorre tempestivamente alla procedura di allerta.


In presenza di eventuali criticità, eventualmente rinvenute, soltanto una tempestiva e puntuale pianificazione sia economica che finanziaria, coadiuvata al costante monitoraggio di specifici indicatori di performance aziendale, può permettere all’operatore specializzato di individuare tempestivamente l’evolversi della crisi d’impresa, di gestirla con un certo grado di successo e di limitare il numero di insolvenze e liquidazioni giudiziali.


(Pennisi&Partners - Riproduzione Riservata)



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